Riflessioni in libertŕ 

Riflessioni in libertà di un (ex) terremotato
di Sandro Orlando

Per almeno un decennio e mezzo, gli ’80 e oltre, l’espressione “terremotato” è stata la più popolare forma di dileggio utilizzata nei confronti dei meridionali. Nel cazzeggio urbano delle città del Nord piuttosto che nei cori urlati dalle curve delle arene nazionalpopolari, l’espressione “terremotato” andò presto a sostituire quella più comune di “terrone”. In questo modo non solo si intendeva sottolineare la presunta rozza e umile condizione dell’italiano nato ben al di sotto della linea gotica, ma anche evidenziarne la sfiga suprema. Non solo sei meridionale e pensi di venire al Nord con la valigia di cartone legata con lo spago e le caciotte al seguito, ma sei anche “terremotato”, cioè sei così sfigato che Iddiopadreterno ha pensato bene di rimarcare la tua condizione di inferiorità schiantandoti la casa sulla capoccia, se ti è andata bene e sei ancora vivo probabilmente vivi in una baracca o in un container.

In tutte le cose c’è una linea di separazione fra un “prima” e un “dopo” e in questo caso questa linea di separazione ha un istante definito e ben preciso: esattamente le 19:34 del 23 novembre 1980. Tutti ricordiamo cosa facevamo in quell’istante, come tutti ricordiamo dove eravamo quando sentimmo che fu rapito Aldo Moro o quando gli USA attaccarono per la prima volta l’Iraq o quando due aerei si schiantarono nel World Trade Center.
In quell’istante diventammo tutti terremotati.
Io quella sera ero a casa a Potenza con mio padre. Guardavamo la replica delle 7 della partita di Campionato, quel pomeriggio la Juve credo battè l’Inter 2-1 con gol di Liam Brady. Era un periodo beato quando a calcio si giocava ancora in 10 italiani almeno e gli interisti erano sempre zitti e muti così come dovrebbe essere in un Universo perfetto.
Ricordo come tutti il suono simile ad una bestiale folata di vento, lo sbatacchiare degli infissi, e poi il boato, sordo, immane, terrificante.
Mentre tutto si muoveva attorno come in una scatola impazzita, ci fiondammo nella tromba delle scale e giù giù disperati per salvare la pellaccia. Vicini di casa in pantofole, in pigiama, in giacca da sera fino a pochi secondi prima rilassati a godere le ultime ore della domenica in famiglia, si precipitavano disperati alla ricerca del portone di ingresso del condominio, della salvezza. Ricordo sempre con un tocco di sana ironia di mio padre, che fatta una rampa, realizzò che avevamo lasciato la porta incustodita dietro di noi e che se si fosse chiusa alle nostre spalle non saremmo più rientrati; allora risalì in “contro flusso” affrontando una cascata di pantofole e vicine di casa urlanti per raggiungere la porta, rigirare la “sicura” e venire giù anche lui, praticamente uscendo per ultimo.
Eravamo tutti lì, centinaia di persone in mezzo alla strada, in via Francesco Baracca. La scossa durò quasi 2 minuti, alzando gli occhi avemmo il tempo di vedere ancora i palazzi che oscillavano minacciosi intorno a noi. Non si sentiva più il boato, ma il sinistro cigolio e lo scricchiolio delle costruzioni sotto stress, dei vetri che si rompevano, delle tegole che venivano giù a fracassarsi sull’asfalto, si sentiva il latrato dei cani terrorizzati, molti ricorderanno che mentre stavamo con il naso all’insù i topi usciti per primi dalle fogne scappavano impazziti tutt’attorno.
Ci cagavamo tutti sotto a risalire in casa a prendere i beni di prima necessità e chiudere gas e acqua, ovviamente a farlo ci pensò mia madre, un vero “marine”, accompagnata da mio fratello.
Solo dopo imparai che per avere una maggiore probabilità di morire nel crollo parziale o totale di un edificio basta, appunto, fiondarsi giù per le scale. Infatti la tromba o la colonna, chiamatela come vi pare, è la prima sezione a cedere in caso di collasso strutturale.
Per ognuno di noi c’è un “prima” e un “dopo”, c’è un prima del terremoto e dopo. Nessuno che sia uscito illeso da un esperienza così terrorizzante per gli individui e decisiva per la storia di una intera comunità, può negare che la propria vita abbia avuto un prima e un dopo il terremoto.
Un terremoto cambia la fisionomia di una comunità, di una città, redistribuisce e rimescola condizioni di vita affettive e materiali. Rimescola ricchezze, priva di certezze e dona opportunità inaspettate. Nulla è più come prima, non lo fu nemmeno per me e per la mia famiglia.
Quando me ne andai da mio zio Giovanni, laggiù al Nord, a Torino, cominciai a sentire per la prima volta quella parola, “terremotato”. La cosa che faceva tristezza allora, ma che oggi rielaboro con sereno disprezzo, è che quella parola, quel dileggio era pronunciato in una Scuola Media di Corso Giulio Cesare popolata al 90% da figli di emigrati dal Sud, molti di quei ragazzi non erano nemmeno nati sotto la Mole, ma a Brindisi piuttosto che a Matera o in qualche dimenticato paesino della Calabria.
Mi ruppi ben presto i coglioni e me ne tornai a Potenza, la città non aveva comunque subito i disastri immani dei paesi della Provincia come Balvano o Muro Lucano o dell’Irpinia tutta.
Da allora cominciammo a imparare qualcosa in più sul terremoto nostro malgrado, da cosa era provocato, come comportarsi durante una scossa, come prevenirne i danni materiali e come soprattutto evitare di piangere vite umane.
Perché il terremoto è una grande enorme tragedia e il dovere di tutti è quello di adoperarsi perché questo fenomeno inevitabile della natura non si risolva sempre e incondizionatamente in una somma di tragici “prima e dopo” per tante persone e per tante famiglie.
Sul sito del Corriere guardo le immagini terribili dell’Abruzzo ferito a morte e non posso non pormi una serie di interrogativi molto pratici.
Ho vissuto altre forti scosse negli anni successivi, ero ovviamente a Potenza a maggio dell’anno successivo al grande botto di novembre ’80, ricordo anche bene la scossa della primavera del ’90, in entrambi in casi ero ancora a casa mia, al 5o piano del condominio. Poi ho vissuto una potente scossa a Tokyo nel 2003, ero molto in alto credo a un 30esimo piano dello Shinagawa Prince Hotel. L’anno successivo, sempre in Giappone, questa volte a Kobe, la scossa arrivò un sabato mattina mentre attraversavo la sopraelevata pedonale su un grosso incrocio in pieno Centro. Delle due scosse in Giappone ricordo ovviamente la serafica calma e la irritante ritualità nell’affrontare il momento di emergenza. Qualche sirena, tutti fermi ai loro posti o ad assumere le posizioni standard richieste dalle procedure di sicurezza e 10 minuti dopo… business as usual, com se nulla fosse. Erano scosse superiori a 4 gradi Richter, quindi non “pizza e fichi”.
Kobe ha subito l’ultimo vero disastroso sismil 17 gennaio 1995 mettendo assieme oltre 5000 vittime. Nella Kobe ricostruita di oggi, per morire di terremoto credo sia necessario che si aprano voragini e che dalle viscere della terra fra colonne di fuoco emergano dei Godzilla a prendere a cazzotti i grattacieli.
L’insegnamento di Kobe, o meglio l’ulteriore insegnamento di Kobe, è stato recepito in tutta la normativa giapponese che è diventata tanto stringente da divenire secondo molti causa di eccessivi rallentamenti nelle approvazioni delle relazioni di calcolo e la concessione delle licenze edilizie.
I giapponesi sono riconosciuti come i massimi esperti dei terremoti e da sempre dicono che vanno combattuti con una politica preventiva, fatta sia di sane pratiche costruttive che di istruzione e addestramento della popolazione, e con lo studio scientifico del fenomeno, che non è strettamente prevedibile, ma ipotizzabile con relativa precisione entro un campo di parametri scientificamente verificabili. Fra questi, il rilascio di radioattività nell’atmosfera sotto forma di gas radon non è riconosciuto come un metodo in grado di fornire risultati univoci, seppur essendo oggetto di indagine e approfondimento da diversi decenni.
Questo ricercatore di nome Gianpaolo Giuliani dice che questo sisma fosse prevedibile e sostiene che in realtà lui l’avesse previsto già da settimane individuando lo sciame sismico e appunto una forte presenza di radon rilevata da un ramificato sistema di centraline .La Protezione Civile di Guido Bertolaso l’ha denunciato per procurato falso allarme, ma all’evidenza dei fatti se Giuliani si è sbagliato, lo ha fatto solo di una settimana. Una semplice “botta di culo”? Bertolaso è un personaggio notevole, ha affrontato con successo una raffica di mergenze, ha avuto il destino di lavorare fondamentalmente con i governi di centro-destra e come è noto Berlusconi non porta tanta fortuna. Però Bertolaso ha preso per le corna tante situazioni gravi risolvendole e gli italiani penso gli riconoscano tutti capacità, serietà e dedizione. Mi riesce difficile pensar che quest’uomo abbia tacciato tout-court il buon Giuliani di essere un imbecille. Tendo più ragionevolmente a pensare che i terremoti non possano essere precisamente messi in calendario come appunto dicono i giapponesi, ma che si possano identificare delle finestre temporali di rischio più elevato. E’ dunque ragionevole accettare l’allarme lanciato da uno studioso sulla base di metodi di indagine non univocamente riconosciuti dalla comunità scientifica? Ammesso che lo si voglia fare, come si fa a evacuare una Regione? Da dove a dove? La nostra Protezione Civile è oggi in grado di mettere in piedi un’operazione di tale complessità?
Perché la questione centrale rimane una: l’Italia è praticamente tutta sismica, da Nord a Sud, isole comprese. Quello che dovremmo metterci in testa è che siamo come il Giappone, sì uguali uguali o quasi.
Quello che emerge nelle foto e nei video dei reporter, messo da parte il dolore straziante del vedere le mani impolverate e inanimate giacere fra le macerie, è guardare proprio la composizione di quelle stesse macerie.
Polvere di malta e di tufo, pietrisco legato come si faceva prima dello sviluppo della moderna tecnologia del cemento armato. Solai in legno fatiscenti, nessuna traccia di strutture di rinforzo metalliche o presenza alquanto limitata di acciaio in ciò che rimane di pilastri e travi in cemento armato.
Si tratta delle solite immagini post-sisma alle quali purtroppo in Italia abbiamo fatto l’abitudine e il callo, quelle di un paese che pretende di doppiare Capo Horn navigando sul guscio di una noce. Prevedere si può? Bah! Prevenire? Sicuramente, sì.
Quando tutti noi piangiamo facciamoci un esame di coscienza come società e come nazione, e facciamolo anche noi già “terremotati” di altra epoca.
Ricordo che quando decisi di mettere da parte i miei eccessi giovanili e di iniziare a lavorare era il 1990. Come tutti i geometrini di primo pelo che non si vergognavano della parola “gavetta” iniziai a lavorare in nero, prima presso uno studio tecnico e poi con un impresa di costruzioni. Entrambi i miei “titolari” – difficile definizione da darsi dato che non pagarono all’epoca una sola fottuta lira di contributi – nell’anno del Mondiale in Italia continuavano a tirare grassamente la carretta con le attività legate alla ricostruzione post-sisma di ben dieci anni prima. Non un paio di anni, non cinque, ben dieci anni! Porto con me gustosi aneddoti di come si faceva quel ripristino, quella messa in sicurezza…ma evito di dilungarmi solo per decenza.
Un anno dopo, infatti, me ne andai dalla Basilicata avendo la mia nausea raggiunto livelli stratosferici.
La ricostruzione dell’ 80, come tutte le ricostruzioni italiche, a parte probabilmente quella del Friuli va detto, nata per riparare ai danni di madre natura è ben presto diventata il mezzo per meglio devastare il il tessuto urbanistico e abitativo attraverso le speculazioni di un classe politica e imprenditoriale cinica e irresponsabile. Solo una minima parte delle contabilità dei lavori di quegli anni sono passate al vaglio della Magistratura, altrimenti avremmo avuto i tribunali ancora più intasati di quello che sono, magari fino al 2100 e oltre, salvo prescrizioni, ovviamente.
Si è rubato l’ “impossibile” e lo sappiamo tutti. Chi lo nega, oggi, ricorda molto bene l’atteggiamnto di coloro i quali cascavano dal pero nel ’92 mentre le macchine della Guardia di Finanza facevano su e giù per le strade di Milano guidate dalle indagini di Colombo, Di Pietro e compagnia. Quando per intenderci Cirino Pomicino fermava gli aerei sulla pista di Capodichino perché era in ritardo o Craxi in Parlamento diceva così fan tutti o Forlani faceva letteralmente la bava davanti ad Antonio Di Pietro.
Dicevo che nel sisma c’è un prima e un dopo, è un momento per rimescolare interessi e equilibri. Noi, lucani, abbiamo visto un mare di soldi cascare a pioggia per trasformare bravi quanto umili carpentieri o manovali in imprenditori di successo con macchinoni e tessere di partito nel portafoglio. Volgari traffichini di partito sono diventati potenti maneggiatori di accordi sottobanco fra politici di alto rango e potentati economici in alcuni casi collusi anche con la delinquenza organizzata. Da questo magma di mediocri toccati e miracolati dalla “Legge per la Ricostruzione” è nata una nuova classe di potenti, una nuova generazione di fabbricatori del nulla.
Perché quando vedo l’Abruzzo, vedo le immagini di quella devastazione mi chiedo: ma possibile che in 30 anni di presunta politica della prevenzione anti-sismica nessuno abbia pensato a investire soldi in un serio programma di lungo termine per la messa in sicurezza dell’Italia tutta? Sarebbero bastati pochi o tanti soldi della ricostruzione in Irpinia, nel Belice, nel Molise, per salvare qualche vita in Abruzzo?
Sarebbe bastata qualche Mercedes in meno o qualche villa sul Tirreno dimezzata a qualche potente costruttore analfabeta per salvare la casa di qualche povero disgraziato nella Provincia dell’Aquila che in pochi secondi ha perso tutto ciò per cui aveva lavorato una vita?
Perché il “costruire antisismico” inizia sempre dopo che il terremoto è già passato a mietere le sue vittime?
E’ vero, non è il tempo delle polemiche, è il tempo dell’emergenza quindi aiuti, materiali e non, raccogliamo fondi, doniamo il sangue.
Ma se guardo ancora una volta le foto dei tufi sbriciolati non posso non pormi certi interrogativi, da cittadino italiano e soprattutto come ex-terremotato di lungo corso.

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Una risposta a “”

  1. aswife dice:

    Mi offende
    A me mi offende il fatto che quando non sono d’accordo su una cosa mi dicono che remo contro
    Mi offendono le nocche dei giornalisti che battono sul vetro delle auto dei terremotati e chiedono -Come va? Avete passato una notte in macchina per la paura?- Cosa devono rispondere? – No, perché volevamo vedere l’alba!-
    Mi offendono quelli che si mettono il casco da pompiere ma si vede che è per la prima volta.
    Mi offendono quelli che consolano le vecchiette e ci tengono a farcelo sapere.
    Mi offendono gli ospedali costruiti come si costruiscono i castelli di sabbia sulla spiaggia.
    Mi offendono certe parole, come –Terremotati andate tutti al mare, paga lo stato, fate finta di fare una bella vacanza
    Mi offende l’entusiasmo nazionale per un cane randagio salvato dalle macerie quando due giorni prima tutti volevano sterminarli in Sicilia.
    Mi offende il silenzio che ci sarĂ  sugli appalti per la ricostruzione.
    Mi offende che si accusa Roberto Saviano per aver detto che ci sarĂ  il silenzio sugli appalti per la ricostruzione.
    Mi offende che chi invoca il silenzio sia quello che parla di piĂą.
    “La vera libertà di espressione è dire ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire”(Orwell).

    Paolo Rossi
    Che tempo che fa, 18/04/2009, Rai 3
    http://www.youtube.com/watch?v=0DEQDM5jK0U

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