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Business e visioni

Business e visioni, da Mattei a Marchionne
di Sandro Orlando

Andando verso Camerino lo scorso fine settimana abbiamo attraversato l’abitato di Matelica in provincia di Macerata. Questo grazioso paese marchigiano è stato a partire dal 1919 la residenza della famiglia Mattei, quella di Enrico per intenderci il Presidente dell’Eni perito nel 1962 in un ancora indecifrato incidente aereo.
Mattei è passato alla storia come l’uomo che osò sfidare le Sette Sorelle del settore petrolifero e che per questo, secondo non pochi, ne pagò le estreme conseguenze. Mattei è in realtà una figura complessa e non priva di grandi contraddizioni, prima tesserato al Partito Fascista, poi aderente al Partito Popolare, quindi tesserato alla Democrazia Cristiana.
E tuttavia egli fu convinto promotore di relazioni economiche e politiche con quel mondo così avverso nel primo dopoguerra alle nascenti democrazie dell’Europa Occidentale, mi riferisco innanzitutto ai suoi rapporti con l’Unione Sovietica e agli accordi commerciali che negli anni della sua presidenza vennero stipulati dall’Eni.

Senza dilungarsi troppo nel parlare dei fatti storici e della vicenda umana di Enrico Mattei, c’è da sottolineare sicuramente un tratto del personaggio che ha affascinato nel corso dei decenni: la visionarietà.
Mattei era un manager di altri tempi, con le abitudini, i modi e le consuetudini di un Italia, di un Europa e di un Mondo profondamente diversi da quelli di oggi e tuttavia portava con sé una qualità che sembra latitare negli Uffici di tanti grandi Dirigenti di grandi Compagnie dell’oggi, cioè quella di aver definito con chiarezza la missione aziendale e di saper proporre all’opinione pubblica una visione di essa. Diventa tanto più importante, quanto più grande è l’Azienda e quanto essa è strettamente interconnessa all’economia nazionale e a costituirne parte del cosiddetto Sistema Paese.
Quando queste condizioni sono presenti, le vicende individuali delle Aziende, diventano questioni di interesse collettivo, cioè rientrano giocoforza nella dialettica riguardante la politica industriale e di sviluppo di un’intera Nazione.
Questo vale sicuramente in Europa e negli Stati Uniti, seppur con accenti diversi, e vale anche nel continente asiatico. Per farsene un’idea basta visitare i siti delle grandi compagnie Indiane e scoprire quanta enfasi è data alla parola “vision” e quanto essa sia messa in stretta correlazione con impegni di responsabilità sociale, quanto davvero praticati è un discorso completamente diverso.

Questo tema ha più profonde radici nel livello di fiducia di cui godono le classi dirigenti, è ancora più sentito oggi nel pieno svolgimento di una devastante crisi economica. Dovrebbe essere altrettanto sentito, specialmente in Italia, il problema riguardante la quasi totale mancanza di centri e circoli di formazione delle élite politiche ed economiche che tragicamente scarseggiano, basta dare una rapida occhiata a chi siede in Parlamento.
Il deficit non è solo di uomini, ma primariamente culturale, ossia è culturalmente che mancano visioni plausibili del futuro del mondo, delle società, delle economie e del ruolo che le grandi aziende avranno in esse, e di conseguenza c’è scarsezza di protagonisti del Mondo economico capaci di guardare lungo e dare forma concreta a queste visioni attraverso piani di realizzazione delle stesse.

Faccio queste considerazioni nel mentre la trattativa fra FIAT e Chrysler si incammina verso un esito positivo e positive indicazioni arrivano dal fronte tedesco dove, pare, Sergio Marchionne sia stato molto convincente sui piani di acquisizione di Opel.
Ed è probabilmente anche per le ragioni che prima enunciavo, che l’opinione pubblica italiana si mostra così genuinamente interessata alle vicende del Lingotto e in gran parte anche entusiasta della piega che esse vanno prendendo. C’è sicuramente bisogno di iniezioni di fiducia, di vedere che una fetta del Sistema Paese si muove con coraggio.
Ero partito da Mattei e sono arrivato a Marchionne, questi due uomini hanno probabilmente pochi tratti in comune se non la capacità di immaginare uno scenario, di immaginarlo grande e diverso dallo status quo e di mettersi in gioco per realizzarlo. Ho sentito qualche commentatore dire che Sergio Marchionne in realtà si sta lanciando in un grande azzardo e che nella sua visione – appunto – la questione è chiara: o FIAT riesce a diventare uno dei 5-6 colossi globali dell’auto capaci di produrre e vendere – e sottolineo vendere – ben oltre 6 milioni di veicoli all’anno oppure è destinata a perire. L’attendibilità di questa tesi dovrebbe essere assicurata dal fatto che quando questo Manager ha preso le redini dell’Azienda, ricorderemo tutti che a Torino erano sul piede di portare i libri in tribunale, tanto nera e disperata appariva la situazione di allora, cioè circa cinque anni fa.

Non mi sento però di condividere tutto questo entusiasmo patriotico che ricopre l’operazione FIAT, per lo meno non in maniera incondizionata. Innanzitutto continuo a leggere di un’ Azienda la cui posizione debitoria ha contorni più che preoccupanti se è vero che secondo Morgan Stanley la FIAT avrà a fine 2010 un debito di quasi 10 miliardi di Euro, una mezza manovra finanziaria, tanto per capirci.
Capisco meglio da consumatore europeo il senso di una sinergia con Opel, molto meno l’integrazione con il prodotto Chrysler e sono ancora più scettico nell’immaginare la conversione del mercato americano a un certo tipo di utilizzo e “consumo” dell’automobile con buona pace degli ecologisti e dei buoni propositi di Barak Obama.
Appunto, io sono un comune cittadino, la visione è altra cosa.
Capisco ancora meno come un’Azienda come la FIAT possa tenere d’accordo la Borsa che premia gli accordi internazionali con impressionanti corse al rialzo e la cassa integrazione alla quale ancora in questo periodo, come è ovvio che sia data la situazione, si ricorre in maniera diffusa a Termini Imerese, a Miafiori, a Melfi, per non parlare della situazione di Pomigliano d’Arco. Vale la pena anche rammentare che la cassa integrazione grava comunque in buona parte sulle spalle della collettività che finanzia gli ammortizzatori sociali.
Specifichiamo bene, l’accordo con Chrysler è sostanzialmente un ingresso a costo zero tanto è vero che FIAT entra inizialmente con un 20% e che è il Governo americano a farsi carico della transizione attraverso finanziamenti ad hoc e una bancarotta pilotata di Chrysler.
Altra cosa sarà il possibile accordo con Opel.
Ma resta il fatto che, almeno alla mia comprensione, appare una contraddizione di fondo fra la strategia globale e di acquisizioni di una grande azienda e le difficoltà tremende che questa stessa Azienda ancora vive, e con le pesanti ripercussioni sui suoi lavoratori e per l’appunto proprio su quel sistema Paese la cui opinione pubblica appare così entusiasta e direi affascinata nelle ultime settimane.

Questo Paese ha già visto grandi protagonisti dell’economia baciati dalla dote della visionarietà, non molti a dire il vero. Tanto per fare qualche nome potremmo citare lo stesso Silvio Berlusconi, Raul Gardini o anche Carlo De Benedetti. Bene che tutti e tre abbiano fatto della visione e dell’innovazione la loro bandiera, di volta in volta con aspetti quasi pseudo-rivoluzionari, peccato che spesso abbiano utilizzato gli aspetti più deteriori del potere per ottenere risibili risultati facendo pagare conti salati alla collettività, alla legalità e al portafoglio.
Non mi azzardo a pensar male di Sergio Marchionne e come italiano mi auguro che tutto vada bene a FIAT, negli USA, magari in Germania, ma soprattutto in Italia. Come tutti, spero di non svegliarmi qualche mattina da qui a un paio di anni e scoprire che era tutto un bluff, alla faccia della visione. Magari il bluff di un brillante manager giocato all’ombra compiacente di un’opinione pubblica e di una politica senza idee, senza cognizione e anche un po’ pecorona.
In fondo la questione rimane sempre la stessa: dato per scontato che Marchionne abbia una visione, il resto del Paese, la sua classe dirigente economica e politica ce l’ha? In Italia esiste ancora un argomento di dibattito chiamato “Politica Industriale”? Da quanto tempo non se ne parla?

 

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